SINAGOGA DI PADOVA
mercoledì 30 ottobre 2019
Sono contento di poter vivere questo incontro con la comunità ebraica di Padova.
È una visita ufficiale: questo mi carica di un compito di rappresentanza, che vivo molto volentieri, a nome di tutta la Chiesa che fa riferimento alla nostra Diocesi di Padova e che si allarga anche in altre province del Veneto, Vicenza con l’altopiano di Asiago, ed alcune comunità di Treviso, Venezia, Belluno.
Il mio gesto vuole ribadire alla comunità ebraica i sentimenti di fraternità e di amicizia che legano ormai da tempo le due comunità religiose e che per la prima volta, in modo ufficiale, sono stati manifestati dal mio predecessore Monsignor Antonio Mattiazzo 25 anni fa. Con questa visita, voglio prendere le distanze da ogni tentativo, anche recente, di comportamenti odiosi verso le comunità ebraiche: abbiamo tutti bisogno di pacatezza, di misura e di memoria responsabile.
Dal Concilio Ecumenico Vaticano II, precisamente dalla promulgazione della dichiarazione “Nostra Aetate” avvenuta il 28 ottobre del 1965, molti sono stati i passi compiuti. Si è trattato soprattutto di gesti, di pronunciamenti, di incontri e infine di documenti che ufficialmente sono stati posti in particolare per iniziativa dei Responsabili delle nostre religioni. L’ultimo segno di questa volontà di incontro è la dichiarazione congiunta delle religioni monoteistiche abramitiche pubblicata il 28 ottobre 2019, solo qualche giorno fa, sottoscritta presso il Vaticano oltre che dal cristianesimo e dall’ebraismo anche dall’Islam. E che riguarda le problematiche del fine vita.
Proprio questo ultimo gesto mi porta a dire che se per me è ormai consolidata, sicura e indiscutibile la relazione di rispetto e di gratitudine verso la comunità ebraica, altri passi sono possibili non solo per incontrarci quanto soprattutto per lavorare insieme. La strada ha prospettive ulteriori.
Ereditando come patrimonio spirituale e culturale i passi compiuti nel recente passato, ora ci attende una comune missione: quella di guardare al futuro della nostra società, della nostra cultura e del nostro pianeta perché con il servizio spirituale che noi possiamo rendere restino sempre umani, al servizio cioè del bene degli uomini.
Dal passato che ci ha visti culturalmente e religiosamente divisi al momento presente che ci vede già fratelli (non dimentichiamo la bella espressione di Giovanni Paolo II che vi chiama “fratelli maggiori”) nasce la possibilità di uno sguardo condiviso per scrutare il futuro e per assumerci la responsabilità di accompagnarne il cammino.
Il contributo con il quale completare e arricchire il cammino del mondo è quello che permette di tenere lo sguardo aperto verso l’alto, verso ciò che non è nelle nostre mani, verso Dio e la sua opera. Lui circonda il suo popolo come i monti circondano Gerusalemme, Lui fa del bene ai buoni; la fiducia in Lui dà sicurezza e per questo da lui invochiamo la Pace. C’è un protagonismo di Dio che non vogliamo tenere nascosto al nostro tempo e al nostro mondo: Lui è l’eterno e il creatore!
Non vogliamo disconoscere l’impegno umano, le capacità e le risorse degli uomini rese possibili dalla intelligenza e dalle possibilità della tecnica e della scienza, ma desideriamo piuttosto contribuire mantenendo viva l’apertura a Dio, l’Eterno. La ricchezza che le nostre fedi sono chiamate a portare per servire l’umanità è un contributo di amore verso Dio e verso tutti, verso quel prossimo senza il quale siamo tutti più poveri.
Il nostro essere fratelli sia una buona testimonianza resa al mondo, da custodire e approfondire, per attestare che ovunque è possibile vivere nella concordia, nella ricerca del bene e della giustizia, in un progresso che ponga l’uomo al centro come nel giardino terrestre. Auguro a tutti la pace del Signore.
+ Claudio Cipolla, vescovo