ESEQUIE DI MONS. GIUSEPPE ZANON
mercoledì 31 ottobre, basilica Cattedrale, Padova
Devo resistere alla tentazione di raccontare i miei pochi anni di relazione con don Giuseppe, perché anch’io avrei un po’ di cose da condividere con tutti voi, da raccontare e sulle quali conversare. In questi giorni mi sono trovato spesso sulla via di Emmaus in compagnia di qualcuno che mi raccontava di don Giuseppe, di quello che don Giuseppe aveva fatto per lui. Non solo a Padova, anche a Roma, dove sono stato in questi ultimi tempi, in tanti lo conoscevano. Le parole di chi ascoltavo uscivano dal cuore. Non potevano essere trattenute. Mi si diceva della sua sapienza, della sua ilarità e umiltà, della sua arte o dono di consolare e incoraggiare, in punta di piedi. Della sua forza e determinazione e della sua chiarezza e onestà.
Ma l’icona dei due discepoli che si allontanano da Gerusalemme, è l’immagine che meglio, secondo me, di tante altre, descrive la capacità di don Giuseppe di avvicinarsi, senza invadere e senza pesare, con amicizia e discrezione, a chi, dopo gli entusiasmi dell’incontro con il Signore Gesù, dopo la gioia di essersi affidato a Lui con tutta la vita, andava allontanandosi dal fulcro della sua esistenza, da quel centro interiore da cui aveva preso le mosse il percorso della sua vita, da quella fede che lo aveva portato fino alla donazione di sé.
In quel tratto di strada si affacciava don Giuseppe e si faceva raccontare tutto, come aveva fatto Gesù con i due discepoli. Quando ci si ammalava, quando si veniva colpiti da qualche dolore, anche familiare, quando si era stanchi e affaticati, quando c’erano tormenti interiori, lui si avvicinava e conversando ti apriva di nuovo gli occhi e il cuore, e con te era disponibile a fare un tratto, anche lungo, di strada. Poi sapeva ritirarsi…
Qualcuno mi ha parlato dei suoi continui riferimenti al mistero dell’Incarnazione, qualcuno delle sue intuizioni profetiche, qualcuno del suo percepirsi “ponte” tra gli ultimi e chi era un po’ più avanti, o “pietra” su cui appoggiarsi per attraversare un ruscello… Quante, quante immagini, quante storie, quanta ricchezza di vita ci siamo raccontati l’un l’altro in questi giorni. E non potevamo farne a meno. Era una necessità collettiva.
La nostra Chiesa ha “perso” un padre! “Perso” è parola poco adeguata, la nostra Chiesa accompagna un padre, un vero padre che, dopo aver portato a termine la sua corsa, ricco di anni, di relazioni e di bene, torna con giubilo alla sua casa.
Dice il salmo: «Nell’andare se ne va piangendo, ma nel tornare viene con giubilo portando i suoi covoni» (Sal 126,6). Torna con giubilo don Giuseppe, alla compagnia dei santi e dei beati, alla Chiesa di cui la nostra terrena è solo pallido riflesso, alla comunità madre dalla quale tutti siamo stati generati.
Noi, stamattina, ci siamo radunati, convocati dalla comune fede in Gesù Risorto, per bussare, noi ancora pellegrinanti, alla casa del Padre, al cuore del Padre che sta in cielo, perché accolga don Giuseppe, riconoscendolo come segno della sua paternità divina per noi. Bussiamo per lui alla porta del cielo, ringraziamo il Padre di avercelo donato e benediciamo don Giuseppe e il Padre, per tutto quello che ci ha raccontato, con la sua vita, di Dio.
Insieme, tutti insieme, e questo è una cosa straordinaria, un segno di comunione alla quale ci costringe don Giuseppe, tutti insieme gli chiediamo di accoglierlo alla mensa nuova e di farlo accomodare con tutti gli altri santi attorno alla tavola del cielo e, come dice il Vangelo di Luca, che passi Lui, Gesù il Signore, a servirlo (cfr Lc 12,37). Questo è il desiderio della nostra Chiesa e questa è la nostra preghiera. La partecipazione all’Eucarestia sia il primo pasto di comunione che noi viviamo nella speranza e nella fede, e che lui vive, non più soltanto in forza dell’Incarnazione, ma pienamente e senza veli, in forza della Risurrezione che ci dà accesso alla creazione nuova.
All’ultimo incontro con don Giuseppe, lui mi ha detto che si sarebbe ricordato di me vescovo e di tutti i preti, aggiungendo che a Padova i preti sono bravi, che c’è un bravo clero e che si ricorderà sempre di tutti e di ciascuno.
C’è un’espressione del Vangelo che mi sembra di poter collocare sulle labbra di don Giuseppe, quasi come suo testamento spirituale: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”» (Lc 24,33s.). Ecco, se finora don Giuseppe ha fatto tanto riferimento all’Incarnazione dalla quale troviamo senso per il nostro vivere, adesso lui fa riferimento alla Risurrezione. «Il Signore è veramente risorto!». Nella Risurrezione di Gesù trova senso questa nostra solenne celebrazione, trova senso il nostro canto, il nostro incenso, la nostra preghiera, la nostra fraternità. Dalla sua Risurrezione comprendiamo la vita fraterna e la comunione che non sono interrotte nemmeno dalla morte, e alla vigilia della loro Solennità, ci introduce a contemplare la Gerusalemme del cielo, la comunione dei santi, di cui noi già siamo parte in forza del nostro battesimo.
A noi, l’invito di don Giuseppe a ritornare, proprio per il mistero dell’Incarnazione, là dove ci sono gli “Undici e gli altri”, a Gerusalemme. Gerusalemme è dove il farsi carne e uomo di Gesù ha comportato fatica, sofferenza e dolore; dove, queste fatiche di Gesù testimoniarono tanto amore e tanta disponibilità per il perdono; dove tutto era retto da un’incrollabile fede nel Padre e grande desiderio di amare con tutto se stesso.
Ritornare dove sono gli “Undici e gli altri”, è ritorno alla fraternità e alla Chiesa, così faticose da vivere ma così legate al mistero di Dio da essere necessarie per il nostro cammino di discepoli di Gesù. Di questo, don Giuseppe parlava, e questo aveva nel cuore come propria missione, come un pastore delicato, premuroso, rispettoso, attento, come il buon Pastore: condurre ai pascoli di Gerusalemme dove ci sono gli Undici.
In questi ultimi giorni in cui don Giuseppe è rimasto assopito, e durante i quali con serenità distribuiva sorrisi e brevi parole, ho immaginato che, come mi aveva promesso, pregasse, pregasse tanto. E non mi sembra lontano dal vero che le sue parole fossero: «E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia che ha la potenza di edificare e di concedere l’eredità fra tutti quelli che da Dio sono santificati» (At 20,32).
Che il Signore, il Risorto, consegni, come Elia con Eliseo, un pezzo del mantello di don Giuseppe a qualcuno di noi. Amen.
+ Claudio Cipolla