All’indomani della morte di Nadia Toffa, dopo una lunga lotta con il tumore al cervello, i colleghi della nota trasmissione televisiva in cui lavorava dissero in più occasioni la frase: «Per noi niente sarà più come prima». Erano le parole degli amici, di chi aveva condiviso con lei il lavoro, ma anche sperimentato da vicino la sua voglia di vivere e lo sguardo nuovo sulla vita che la malattia l’aveva aiutata a maturare. Come Nadia e tanti suoi amici e colleghi, tante sono le persone che nel tempo della malattia o nello sfiorarla, maturano uno sguardo nuovo su stessi e su gli altri. Per alcuni, è anche il tempo della crisi con Dio che diventa incomprensibile e muto o l’occasione in cui Egli diventa più familiare, più intimo, la roccia su cui si sperimenta la vera solidità. La Giornata per la vita del 2 febbraio e la Giornata del malato dell’11, gli incontri di Gesù nel Vangelo e quelli con i nostri famigliari e amici che vivono il dramma della malattia sono una cattedra per ciascuno per imparare a vivere. La presenza di un ammalato ha la forza di interpellarci nel profondo, di aiutarci a prendere contatto con la nostra verità, nonché di metterci a nudo nelle nostre ipocrisie. Nella soglia del cuore scopriamo la possibilità di accogliere diversamente la vita, di aprirci alla realtà senza pretese, di lasciarci guardare da Dio che ha cura sempre di noi. Un vero incontro con un malato non lascia niente come prima!
Sono tanti i terreni inviolabili che la società ha abbattuto, eppure sembra che la malattia rimanga spesso un affare privato, un pericolo da cui stare lontani, un’ombra da nascondere e non fare vedere ai piccini oppure qualcosa da trattare in modo freddo e calcolatore, pronti al peggio che sempre è sopra la testa come la spada di Damocle. Attorno al malato, talvolta si crea un clima di rigidità, un ambiente asettico esternamente ma anche interiormente, che non credo sia di aiuto. Voler bene a una persona ammalata, chiede di prendersi cura anche dell’ambiente in cui vive, della famiglia a cui appartiene, evitando di lasciarla sola nel vivere la sofferenza fisica e quella del cuore. In altre parole, chiede di compiere dei passi di fraternità, di prossimità, osando rompere l’indifferenza per bussare con discrezione alla porta di casa e portare un semplice saluto e un sorriso o anche solo offrire un aiuto nel sistemare la cucina, nell’andare a fare la spesa, nell’accudire i figli, nel portarsi a casa della biancheria da stirare, nell’accompagnare ad una visita, nel condividere una preghiera. La famiglia reale vive anche i passaggi della malattia e questi chiedono il regalo di un po’ di umanità, di attenzione fatta di ascolto, presenza silenziosa, sguardo delicato, disponibilità al servizio e, talvolta, una mano forte e una parola autorevole che incoraggino a rimettersi in piedi, ad abitare con fiducia la debolezza.
“Nella malattia scopri cosa è davvero importante”, mi diceva un caro amico poche settimane fa: soprattutto “perdono di valore le mire personali”. Pur nella concretezza del quotidiano, in cui c’è bisogno anche di lavoro, di soldi, di decisioni, questa frase richiama al bisogno di senso, di verità, di misericordia che emerge forte nel cuore di un ammalato e di chi condivide da vicino la sua esperienza. È la ricerca che emerge radicale in tante pagine della Bibbia, che fa dire a Giobbe: «Perché non sono morto appena uscito dal grembo?» (Gb 3,11) e “Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto” (Gb 42,5) e al salmista: «Come l’erba sono i giorni dell’uomo» (Sl 102,15), facendogli vedere anche l’inconsistenza dell’agire del mondo: «Si affrettino altri a costruire idoli» (Sl 16,4). L’ammalato, anche esprimendosi con frasi dure, spesso dichiara un profondo bisogno di presenza, di condivisione, di gratuità, tratti che hanno profondamente a che fare con Dio. Chiamandoci a sé ci aiuta a lasciare andare altre realtà a cui leghiamo inutilmente il cuore, per fare posto a quei doni che sono necessari e che non passano.