È una porta che ha ancora solo la cassamorta. Attraverso i teloni di plastica spessa che la compongono si intravvede un cantiere dove giovani e adulti sono al lavoro: le maniche rimboccate, progettano e assemblano pezzi.
Entriamo nella settima e ultima porta della carità. Il nostro percorso di Avvento si chiude dentro a una comunità, quella dell’unità pastorale della Guizza (Bassanello, Guizza e Santa Teresa), che è l’emblema di un cammino verso orizzonti più grandi.
E che ci consegna tre chiavi: l’ospitalità, la disponibilità e il pensare in grande.
“Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”: è il versetto 13 della lettera agli Ebrei. Parte da qui la riflessione e il progetto che ha mosso i sacerdoti e un gruppo di volontari dell’unità pastorale ad avventurarsi sulla strada dell’accoglienza ai profughi.
«La sollecitazione di san Paolo – afferma il parroco, don Luigi Bortignon – è particolarmente adatta al tempo che stiamo vivendo, caratterizzato dall’arrivo di fratelli che escono dai loro paesi in guerra e che cercano contesti di vita migliori. L’esortazione è ad essere ospitali, nella doppia accezione che connota il termine ospite: saper ospitare e farsi ospitare dall’altro».
La sollecitazione è nata dalla richiesta da parte della cooperativa sociale Populus di ospitare presso l’ex-scuola materna del Bassanello 6 richiedenti asilo: tutti ragazzi sotto i trent’anni. Tutti musulmani.
«Le nostre comunità cristiane hanno così l’opportunità di rispondere all’invito di papa Francesco ad “esprimere la concretezza del Vangelo” facendosi prossime, ospitali verso questi fratelli. Alcune famiglie e alcuni giovani, che possono diventare moti di più, si sono dichiarati disponibili a collaborare alla buona riuscita del progetto, attraverso piccoli gesti di vicinanza, andando ad incontrare le persone che verranno accolte, in stretta collaborazione con gli operatori della cooperativa, nel rispetto delle differenze personali, culturali e religiose».
È nato così il progetto Karibuni (Benvenuti).
«L’aspetto straordinario è stato che appena abbiamo lanciato la proposta di un’accoglienza e di un mettersi accanto a questi 6 ragazzi – sottolinea il parroco – subito si è attivato un movimento interessante. Non sappiamo ancora bene come si strutturerà il progetto e quale fisionomia precisa assumerà. Per ora è chiaro che si basa sul grande e profondo rispetto per queste persone».
E forse non è proprio la “fisionomia precisa” quello a cui si deve tendere, ma l’andare a tradurre nello stare accanto come famiglia l’accoglienza.
40 le persone che hanno dato la propria disponibilità in questo senso e che hanno lanciato proposte, alcune già avviate, come l’insegnamento della lingua italiana e un corso di informatica. Ma c’è chi propone un corso di teatro e momenti conviviali per intessere sempre più relazione e fare respirare “aria di casa”. Parallelo a questo impegno sul campo c’è anche un lavoro intrapreso sul piano della formazione e del confronto, con due serate tra volontari che hanno visto anche la presenza di don Luca Facco, direttore di Caritas diocesana.
I giovani della comunità sono impegnati in prima linea su questo fronte, gemellati anche con un gruppo di Pionca. «Avevamo già iniziato un cammino di conoscenza con un gruppo di profughi accolti in quella comunità – racconta Chiara Peraro – e siamo arrivati a loro raccogliendo la richiesta dell’educatrice del gruppo giovanissimi di un supporto in questo senso. Tra amici sentivamo forte l’esigenza di un impegno in quest’ambito ma anche la curiosità dell’incontro con coetanei che hanno dovuto lasciare la loro casa e avventurarsi in un viaggio lungo, e terribile, per costruirsi un futuro degno». Così un gruppo di “giovani amici” della Guizza ha iniziato ad avvicinarsi ai profughi accolti a Pionca. «Insieme abbiamo fatto gite, partecipato a giochi, vissuto tanti momenti di convivialità e con un gruppetto di 10 si è creata una bella amicizia». Ed è proprio con loro che hanno incontrato in due serate la comunità dell’unità pastorale e i 6 profughi arrivati. «Sono stati due momenti davvero belli e riusciti – sottolinea Chiara – Il vedere e toccare con mano che questo cammino di integrazione è possibile davvero, vista la presenza degli altri giovani profughi, ha accelerato il processo e sciolte molte ritrosie, abbattendo diffidenze e pregiudizi. Ora continueremo e approfondiremo il percorso. Sempre nell’ottica della relazione amicale e fraterna».
La chiave del pensare in grande
«Accogliere e avvicinarsi a uno di loro – aggiunge don Luigi Bortignon, facendosi portavoce del sentire dei volontari – è un po’ prendersi cura del mondo. Ci rendiamo conto di essere fortunati: di avere un letto e una casa, di aver da mangiare… I nostri ragazzi hanno la possibilità di crescere e di vedere il domani, non come i bambini ad Aleppo, per citare un luogo tra i tanti dove la guerra e l’odio vincono sulla vita».
Ed è a partire da quest’inquietudine, rivelatrice di una disparità pesante, che i volontari si sono ritrovati e stretti. Coesi in un unico obiettivo. «Questi ragazzi – affermano – portano la sofferenza del loro mondo in casa nostra, ci richiamano ingiustizie e dolori: cos’hanno dietro e dentro di loro? che ferite ancora da curare? La richiesta che subito ci è nata in cuore è stata: diteci cosa possiamo fare!».
Si sono avvicinati quindi all’unità pastorale tante persone che hanno dato la propria disponibilità, pur magari non frequentando assiduamente la chiesa. «Questa presenza ci stimola anche a pensare e vivere nuovi modi del nostro essere comunità. Ci spinge a pensare in grande!».
Claudia Belleffi