È una porta che ha il colore delle relazioni che nascono attorno alla parola di Dio quella che andiamo ad aprire: è fatta di vangelo tradotto (nel senso letterale) e mangiato alla stessa mensa.
Entriamo nell’unità pastorale di Cona, che vede lavorare in comunione le comunità di Cantarana, Cona, Monsole e Pegolotte. Usiamo la chiave dell’accoglienza del cuore, della fede condivisa e del mettersi in discussione.
La chiave dell’accoglienza col cuore
Da luglio 2015 nell’ex base militare di Conetta sono ospitati 1500 profughi richiedenti asilo. Una presenza che non poteva passare “inosservata” e che ha provocato con forza l’unità pastorale.
«Ci siamo soffermati sui bisogni di queste persone – spiega il parroco, don Stefano Baccan – e ci siamo chiesti da buoni cristiani come affrontarli: accogliendoli con il cuore prima di tutto».
Il passo immediato è stato il coinvolgimento nelle celebrazioni domenicali.
«Ogni settimana partecipano una settantina di profughi e uno di loro a turno legge in lingua, francese e inglese, il vangelo e le letture. Per la maggioranza provengono tutti dal centro Africa, ma ci sono anche pakistani e bengalesi».
Tra gli ospiti dell’ex base militare ci sono anche molti cristiani, soprattutto protestanti. «Sono tutti giovani dai 18 ai 30 anni: gli adulti non se la sentono di affrontare un’avventura tale per lasciare il proprio paese. La struttura è gestita da una cooperativa sociale, con cui collaboriamo, ma per via degli aspetti burocratici più di tanto noi non possiamo fare».
Protagonista di quest’attenzione il gruppo Caritas che ha saputo anche coinvolgere altre persone e volontari.
«Rispecchia lo stile che vogliamo assumere come comunità – sottolinea il parroco – L’attenzione ai poveri e a chi è in difficoltà si traduce sì in azioni concrete e immediate come la distribuzione di generi alimentari e di vestiario, ma anche e soprattutto nel creare relazioni di ascolto, anche se in modo non formalizzato. Fare e creare relazione è un dovere di sensibilità nei confronti della sofferenza e del disagio: portare un pacco senza la conoscenza della persone spesse volte traduce un semplice scaricare la coscienza e non vogliamo sia così».
La chiave della fede condivisa
La presenza dei profughi provoca a riflessioni dal punto di vista etico (come accoglierli? in quanti accoglierli? pratichiamo la microaccoglienza? la vogliamo?) e ma anche sul fronte della fede, personale e comunitaria.
«È una situazione davvero complessa e complicata soprattutto dal punto di vista logistico – afferma don Stefano – e si scontra con difficoltà oggettive sulla gestione delle accoglienze e con posizioni ideologiche che nascondono interessi da difendere. Su questo davvero è quasi impossibile inserirsi e intervenire come comunità, se non in termini di provocare a una riflessione. Ma dal punto di vista delle fede questa presenza di fratelli stranieri ci dice molto».
Arrivati dopo viaggi inenarrabili, faticosi e dolorosi, con lo sguardo volto a raggiungere altri paesi e non a fermarsi in Italia, questi ragazzi e giovani uomini con il loro stare e pregare richiamano altri orizzonti. Di fede.
«Hanno tutti una gran fede e sentiamo che questa li ha sorretti nel loro scappare dal proprio paese! Lo vediamo dalla serietà e profondità con cui pregano a messa e stanno in chiesa, dalla fedeltà della loro presenza. Per la nostra comunità è davvero molto edificante capire che al di là del colore della pelle e delle prove della vita, condividiamo un dono uguale a tutti quanti: Gesù Cristo morto e risorto per ognuno di noi».
Venerdì 30 dicembre 2016, festa liturgica della Sacra Famiglia, alle 18.30 nella chiesa di Cona, la messa viene celebrata completamente in inglese. E al termine ci si ritrova per un momento conviviale. «Abbiamo scelto di dedicare la celebrazione a loro! A questi ospiti che da un anno e mezzo ci stanno dando molto. Alcuni di loro sono stati coinvolti anche durante il Grest, per suonare uno strumento o seguire alcuni piccoli servizi. Così anche bambini e ragazzi hanno potuto creare relazione con questi nostri fratelli».
La chiave del mettersi in discussione
Per l’unità pastorale di Cona carità è quindi accoglienza che si traduce poi in un altro grande atteggiamento: la voglia, capacità e impegno di mettersi in discussione.
«Per noi carità è accoglienza e non integrazione – sottolinea don Stefano – Quest’ultima richiede un processo molto più lungo: molti di loro aspirano ad andare via dall’Italia, sentono la loro permanenza qui come un momento di passaggio verso altri paesi. L’integrazione, inoltre, prevede la conoscenza buona della lingua e avere un lavoro. Come comunità ci siamo lasciati coinvolgere da questa presenza importante. E per noi carità si è tradotto in accoglienza che nasce dal mettersi in discussione. Di fronte ai bisogni di queste persone e alla ricerca di soluzioni a problematiche concrete di gestione, la prima risposta che come comunità ci sentiamo di dare è mostrare il volto della carità: non abbiamo mezzi né possibilità per fare di più, se non il testimoniare di essere parte di un gruppo che ha come finalità venir incontro alle necessità reali di ogni cristiano e fratello».
Claudia Belleffi