di Lidia Maggi, pastore della Chiesa Battista
Si può essere ancora felici dopo un fallimento affettivo, un abbandono, un lutto? La Bibbia non risponde in modo assertivo ma racconta storie dove la speranza filtra lentamente squarciando le tenebre del non senso. La sapienza biblica sa che la risurrezione può essere annunciata solo dopo aver sostato negli abissi della storia. Un annuncio troppo veloce del risorto rischia di rimuovere il dolore, il fallimento, il vuoto, senza curare. Una risurrezione frettolosa non ci salva dall’abisso, piuttosto ci schiaccia.
Il tempo del cordoglio, della rabbia, dell’attesa è lo spazio delle nostre storie prese sul serio con le loro ferite. La risurrezione non è uno schiacciasassi che annulla il dolore negandolo… essa ci raggiunge laddove siamo, entra nell’inferno del nostro cuore, lo abita per risollevarci. Ricominciare, ritrovare il gusto perduto della vita, scoprire che c’è ancora un orizzonte oltre il nostro cielo chiuso è l’itinerario suggerito da un Dio tenace che apre, discretamente, storie apparentemente chiuse. Un Dio che si ostina a ricominciare con il creato e con il suo popolo, nonostante i fallimenti.
Ricominciare non significa dimenticare il passato, ma trasformare il fallimento in risorsa. Un Dio che non inchioda le nostre vite alla condanna, piuttosto ci suggerisce altre strade che i nostri occhi, annebbiati dal pianto, non scorgono. Proprio come Agar che, nel deserto, si prepara a morire di sete, anche noi, nel dolore, non siamo in grado di vedere quella fonte che può dissetarci e salvarci, se Dio non riapre i nostri occhi.
A volte quest’apertura di sguardo avviene come rivelazione, più spesso è esperienza graduale di cui solo alla fine del percorso si ha piena consapevolezza, come per i due discepoli di Emmaus, come per Rut, la vedova moabita. La vicenda di Rut racconta di una felicità che entra in punta di piedi in una nuova storia. Essa ha bisogno di un mantello per coprirsi il volto, non può svelarsi totalmente. Necessita di maturare lentamente, proprio come il grano che fa da sfondo al racconto. Narra la felicità che incontra Rut quando le è dato di re-innamorarsi.
La vita le aveva rubato l’amore e la speranza, lasciandola sola e senza fiato, dopo la morte del marito. Poi, però, i suoi occhi hanno incontrato quelli di un altro uomo che l’ha guardata con sguardo innamorato e tutto è cambiato. Un corteggiamento discreto: piccoli gesti di cura, parole cordiali, che lentamente riaccendono il desiderio. Rut ha le mani segnate dalla fatica. È bella, non di quella bellezza acerba che rende gli occhi luminosi e sognanti, non è spavalda come la sulamita del Cantico. È una donna disillusa, ferita dalla vita. E tuttavia non si è ancora arresa al cinismo come sua suocera Noemi.
Rut non ha nessuno che la mantenga: ha perso il marito, la sua gente e non ha neppure un figlio che possa regalarle un prestigio sociale e aiutarla a dare senso a quell’amore perduto. Di questo però non accusa Dio. Da dove le viene quella forza che la spinge a restare accanto alla suocera mentre tutto crolla? Da dove le viene l’audacia di ricominciare in una terra nuova, affidando il suo destino a una donna ancora più fragile di lei? Da dove le viene la forza per rimanere accanto a chi ormai non ha più nulla? Rut è ancora una donna avvenente. Una bellezza pesante da portare, ora che non c’è più il suo uomo a fianco. Rischia di essere importunata mentre spigola nei campi.
In un paesaggio agreste, solo apparentemente sereno, si snoda la vicenda della nonna del re Davide. È lì che incontra Boaz. Lui ha tanti anni sulle spalle e non si illude di piacere. Non crede che qualcuna lo possa preferire a un giovane. Ha una buona posizione sociale; questo, però, sembra non bastare a renderlo felice. Aveva notato la bella moabita; tuttavia non osava farsi avanti, poiché sapeva delle sofferenze che affliggevano la donna. Ma più forte delle paure è l’amore. È Rut a prendere l’iniziativa. Si intrufola nel giaciglio di quell’uomo maturo, gli dona calore e lo sorprende con quella richiesta audace: «Sposami». Rinasce allora lo stupore: lui si sente scelto, lusingato da quella donna che nel buio ha osato stendersi accanto a lui. Si sposeranno, Rut e Boaz, e nasceranno figli e figlie.
La storia di Rut è una ripresa, un nuovo inizio che non pretende di cancellare il passato ma è in grado di fasciare il cuore rotto. Ecco perché tanta insistenza sul doloroso preambolo che fa da cornice all’incontro con l’amato. Per capire come una storia possa riprendere, dopo il dolore e la paralisi della morte, è necessario un cammino complesso. Forse il viaggio in quella terra straniera, dove Rut accetta di seguire la suocera, è stato anche un cammino interiore nel deserto dell’anima, nella carestia di un cuore consumato dalla sofferenza.
Lo scoprirsi straniera in una terra nuova ben rappresenta l’anima disorientata dopo il lutto di una donna che deve ridefinire tutta la sua esistenza. Eppure, la morte è inscritta in ogni storia d’amore. Chi ama sa che può un giorno perdere l’amato, ritrovarsi nella solitudine. E tuttavia, proprio chi ama, più di qualsiasi altro, rimuove la morte. Occorre allora un lungo viaggio interiore per imparare a vivere e camminare nella nuova realtà. Il lutto, come una separazione, un divorzio, muta le geografie esistenziali.
Nella storia di Rut non tutte le ambiguità sono sciolte. Proprio come succede a chi ama una seconda volta e porta con sé le pesantezze del passato, le cicatrici assieme allo stupore. Una meraviglia diversa da quella che si accende nel primo amore. Rut ora guarda alla vita con lo stupore di chi ha ricevuto un dono inatteso, di chi «era come morta, ed è tornata in vita, era perduta ed è stata ritrovata». La seconda volta di Rut è una risurrezione. Una seconda possibilità è un altro modo per dire la Grazia! Forse questa non riuscirà a salvare il mondo, ma qualche volta il suo fascino sprigiona una passione che perfora i muri e scioglie il ghiaccio. Rut ha saputo riaprirsi alla vita e risvegliare nel cuore di un uomo straniero una primavera dimenticata.