Si parla molto di fase 2. Una fase che anche per la Chiesa significherà la possibilità di ritornare, sotto determinate condizioni, a celebrare e forse anche a ritrovarsi per qualche incontro. Ma sappiamo che anche in questa nuova fase la Chiesa non avrà il volto di sempre, a cominciare dalla liturgia che richiede intimità, prossimità, contatto di corpi. Il discorso vale anche per l’annuncio e la catechesi, che non possono essere fatti solo di parole ovattate, filtrate dal mezzo di turno – smartphone, computer… – ma hanno bisogno della presenza calda e significativa della persona che testimonia con tutta se stessa l’autenticità di ciò che annuncia.
Dunque, più che a concentrarsi sulle posizioni dei fedeli negli edifici o sulle certificazioni per l’igienizzazione, è necessario andare oltre per sognare una pastorale post-Covid 19.
Sarebbe opportuno approfittare di questa fase ancora provvisoria, che probabilmente durerà fino alla comparsa del vaccino, per compiere, in modo sinodale, a livello di parrocchie, di diocesi, di Chiese vicine, un discernimento delle cose che si ritengono irrinunciabili per la vita delle comunità cristiane. Si potrebbe cominciare con l’ascoltare i laici, le famiglie, i giovani su cosa e come hanno vissuto la fede e la loro appartenenza alla comunità durante questo tempo “senza”. E poi si potrebbe cercare di comprendere cosa eliminare e cosa tenere all’interno della nostra organizzazione e delle strutture presenti o, ancora, di chiedersi cosa stiamo imparando da questa situazione, per capire ciò che veramente sostiene una comunità e ciò che invece la disperde.
A una Chiesa che ha reagito con sbavature e generosità all’apocalittico manifestarsi del Covid 19 potrebbe ora succedere una Chiesa che, guardando lontano, si predispone al futuro senza subirlo. La fase 2, può essere il laboratorio della Chiesa in uscita: «La Chiesa in uscita è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano» (EG 24).
don Giorgio Bezze