«Salamaleikum!» Questo saluto la ossessiona. Lo sente ripetere continuamente. Da chi entra, chi esce o chi ritorna al magazzino dove lei lavora da qualche mese, a Fès. Nathalie, Piccola sorella di Gesù, aggiunge però subito: «Ma questo è il saluto del Cristo risorto La pace sia con voi! Con aria innocente, contemplativa, lo assapora come il frutto di un’altra cultura, un’altra lingua, un’altra fede. E risponde con gioia «Waleikum salam!» Anche con te! Così comincia la sua testimonianza al nostro gruppo.
Siamo una delegazione di una quindicina tra preti e laici di Chemins de dialogue di Marsiglia, in visita alle comunità cristiane in terra d’Islam, in Marocco. L’altra sponda del Mediterraneo. I nostri vicini di casa. Appena arrivati è la parrocchia San Francesco d’Assisi a Fès che ci accoglie insieme alla testimonianza di don Matteo, marchigiano, e di due petites soeurs. Lui va spesso nel carcere della città. Mentre attende di incontrare qualcuno, prega e legge da solo la Bibbia. «Non mi pare vero – ci dice sorpreso – la Parola di Dio attraverso le mie labbra arriva fin qui!» Qui in terra dell’Islam pregare è importante. È come l’acqua di sorgente per il deserto. Ci si può perfino assentare dal lavoro per andare alla preghiera della moschea. Così, Lucie, l’altra Piccola sorella di Gesù, lavora in un ospedale. Ricorda quando, un giorno, il medico non riuscendo più a farcela nel suo intervento a un bambino gravissimo a un certo punto si fermò. Depose i ferri. Si mise a pregare e, alzando la voce, poi, verso di lei: «Prega anche tu, dì un’Avemaria !» Pregare è aggiungere una forza misteriosa alle nostre forze. Lo si capisce qui, per davvero.
La medina di Fès ci attira il giorno dopo come una calamita. Sembra di ritornare mille anni indietro. Un pezzo di medioevo vivente. Negozietti di artigianato antico del rame, della lana, dell’intarsio in legno, della tintura delle pelli; souk con montagne di datteri e spezie, una multitudine di gente che va e viene, un labirinto impressionante di vicoletti dove si è destinati a perdersi… Ma grazie a Mohcine, la nostra guida, il pericolo è scongiurato e la Karaouine, grandiosa moschea e antica università del IX secolo appare, infine, in tutto il suo splendore oltre a tante moschee nascoste. È questa, infatti, la città sacra dell’islam del Marocco. Vi si svolge anche da anni un famoso festival delle musiche sacre del mondo: un vero incanto.
Con 200 chilometri di viaggio ci portiamo sull’altopiano di Midelt a 1500 m. La kasbah Myriem con le sue torri berbere color ocra ci accoglie insieme al sorriso di Jean Pierre, il priore dei monaci di Tibhirine. Incontrare e ascoltare la testimonianza dell’altro Jean Pierre, alsaziano, sull’ottantina, unico sopravissuto del martirio dei sette monaci è emozionate. La sua serenità e i suoi occhi azzurri vi sorprendono. La sua parola calma vi rasserena. Pur parlando di una tragedia vissuta: «Non è triste – scandisce con convinzione – sono andati fino in fondo nell’offrire la loro vita. Sono dei martiri». Sì, la vita è dono, prima di tutto.
L’empatia di questo monastero con la popolazione musulmana circostante è evidente. La loro preghiera cantata in francese e in arabo, il thè preso a mezza mattinata insieme agli operai musulmani del monastero, il ramadan fatto insieme a questo popolo. Tutti segni di un qualcosa di originale in terra d’Islam. Percorrono, così, sentieri inediti di dialogo e di testimonianza evangelica. Segni del Regno di Dio. «Dio ama la fragilità» ci dirà il priore, parlando della sua comunità di appena quattro monaci trappisti e dei loro piccoli passi di comunione con un mondo tanto differente. «È questo il mistero della Visitazione» suggerisce, sospeso. Portare Cristo come Maria, senza dirlo. Mai riuscirebbero, infatti, a vivere in un grande monastero in Europa. L’incertezza, la provvisorietà li perseguita. E li fa vivere.
Accanto vivono le suore francescane missionarie di Maria. Marie, francese e Barbara, polacca, sono impegnate con i nomadi, viaggiando un tempo con loro sotto la tenda. Le altre tre in un atelier di tappeti insieme a un gruppo di donne musulmane. Qui da quarant’anni o più, sono tutte anziane come suor Monica, che vi ripeterà ammirata : «I nostri vicini di casa hanno una fede che trasporta le montagne!» Ormai, dopo tanti anni, li conosce bene. L’unica giovane, quarantenne, suor Adonai, un bel volto latino-americano, la ritroviamo in compagnia del verde di qualche cipresso, nella pace del piccolo cimitero accanto. Dopo tanti tentennamenti aveva deciso di rimanere per sempre missionaria in terra d’Islam. Ma un brutto incidente stradale, l’ha presa sul serio. Solo qualche sasso, in forma di croce, posto là dove è sepolta. Con amore.
A Meknès, la gioia del vangelo prende il volto di tre giovani francescani, Stephane, Natale e Luis: un francese, un italiano e un messicano. Vivono nella povertà della medina, in un’antica abitazione di ebrei arrampicata sulle mura della città, dove dall’alto si contempla tutto il quartiere. Al mattino un’alba stupenda vi inviterà a recitare con il cuore, silenziosamente, il Cantico delle creature. Durante il giorno, invece, il luogo diventa un rumoroso alveare per più di un migliaio di giovani. In sale e salette diverse imparano le lingue: il francese, lo spagnolo, l’inglese, il tedesco ; con un bel servizio di biblioteca. Praticamente, tutto gratuito. Ed è un servizio originale di francescani, che fanno vivere qui un’oasi di fraternità e di libertà ispirata al carisma del figlio più bello di Assisi. La cena invece con tajine, couscous e altre specialità marocchine è a casa di Bouchra, una donna del quartiere dal volto dolce. «È ancor più francescana di noi !» vi assicura frère Stephane. Ha fondato Aned, un’associazione che si occupa dei poveri, di corsi di cucina e cucito e di tanti ragazzi di strada. «Alla sera, a volte – ci confessa lei – si veste da uomo, avvolge il suo scialle e fa il giro del centro per dare loro una mano o un tetto. Sì, la storia del buon samaritano che si ripete ancora oggi».
Infine Rabat, la capitale amministrativa e politica, mentre Casablanca rimane quella economica. La casa diocesana ci accoglie, mentre Bibiane e altre tre suore dalla pelle nera, tutte del Mali, si fanno in cento per servirvi. Anche le piccole comunità cristiane qui vivono il valore della cultura marocchina: all’ospite va sempre riservata un’accoglienza reale.
Edouard, direttore della Caritas Maroc ci spiega delle molteplici attività del suo organismo riguardo ai tantissimi migranti, provenienti dai paesi subsahariani. All’incrocio tra Europa, Africa e mondo arabo il Marocco sta al cuore delle problematiche del mondo contemporaneo, come un’emigrazione di partenza, di arrivo e di transito.
L’arcivescovo Vincent Landel si fa volentieri invitare a cena. Occasione preziosa di cogliere uno sguardo di insieme sulla diocesi e di questi cristiani «serviteurs de l’esperance» dal titolo del loro progetto pastorale. «Qui viviamo allo stesso tempo tre periferie, come le chiamerebbe papa Francesco» così inizia. Il rapporto quotidiano tra cristiani e musulmani. Quello di gente del Nord e del Sud dell’Africa. E quello di differenti povertà che si incontrano. Le chiese cristiane quasi vuote, si sono riempite di giovani subsahariani, a cui il governo marocchino riserva delle borse di studio. Le loro corali alla domenica trasmettono un entusiasmo travolgente, un nuovo soffio all’assemblea. Anche se qui, in terra d’Islam avvertono una doppia emarginazione : quella di essere neri ed essere cristiani. «Attraverso loro, tuttavia soffia qualcuno, il Vangelo cammina tra i giovani e interpella».
Marc Boucrot, responsabile dell’Ecam, ci presenta, invece, la fisionomia delle scuole cattoliche: 15 grandi strutture, 12.600 ragazzi e per il 98 per cento musulmani. Anche il personale docente è musulmano. Spesso anche il direttore. Unicamente il progetto scolastico si fonda su valori del Vangelo. La dignità della persona umana, la libertà, la responsabilità, la solidarietà, l’essere costruttori di pace. In una società come questa, non vi sembrerà poca cosa.
L’istituto ecumenico Al Mowafaqa nato per la formazione al dialogo interreligioso qualche anno fa vede la collaborazione interessante tra protestanti e cattolici. Come un vero laboratorio associa insegnamento universitario e esperienze di vita in un paese musulmano, preparando al dialogo interculturale e interreligioso. Un’altra originalità in terra musumana. Come originale è la magnifica tavolata improvvisata per pranzo tra ospiti, studenti e docenti. Accoglienza fraterna, che permette uno scambio incrociato e rivela la parola-chiave di questa istituzione: dialogo. «Non si trova la verità che praticando l’ospitalità» affermava Louis Massignon.
Questo, in fondo, il nostro incontro con i volti di una Chiesa umile, coraggiosa e fraterna. In terra musulmana. Incontro con la loro vita, una sfida quotidiana. Ma anche con la forza e la gioia del Vangelo. Nella terra dove Dio è grande, si fa testimonianza di un Dio che è amore. Come era scolpito sul legno di cedro del tabernacolo di una chiesa di qui da un artigiano musulmano. Senz’altro, l’originalità più bella.
Renato Zilio
missionario scalabriniano migrantes della diocesi di Padova