È mancato improvvisamente don Augusto Busin

Lunedì 18 marzo 2024 – Le esequie giovedì 21 marzo alle ore 15.30 chiesa della Conca (Thiene)

Don Augusto Busin (5 gennaio 1941 – 18 marzo 2024)

 

Don Augusto era nato a Campo di Trens (BZ) il 5 gennaio 1941 da Francesco e Luigia Giacomelli. Il papà, «buon socialista, col rosario in tasca», nel 1938 aveva trasferito la famiglia in Alto Adige per motivi di lavoro e, una volta terminata la guerra, l’aveva riportata a Thiene. La famiglia si era nel frattempo allargata, contando cinque maschi e due femmine. Più volte la famiglia si è di nuovo trasferita, fino alla definitiva sistemazione, nella quale don Augusto si sarebbe alla fine ritirato assieme alla sorella Francesca, al fratello Bruno e alla sua famiglia. La stessa casa dove don Augusto è venuto a mancare nella mattina di lunedì 18 marzo, in modo inatteso, per quanto la situazione di salute fosse da tempo fragile e delicata.

Don Augusto, frequentate le Elementari alle Scalcerle, nell’ottobre 1952 era entrato in Seminario al Barcon, quindi al Collegio vescovile di Thiene e infine nel Seminario maggiore di Padova (1957). Raccontava di essersi posto alla fine del liceo la domanda essenziale e non più rinviabile sulla sua vocazione. Il consueto percorso formativo si era, poi, concluso con l’ordinazione presbiterale di 21 giovani, l’8 luglio 1965. Il Concilio Vaticano II andava verso il suo termine e don Augusto, «prete conciliare, pienamente», con altri giovani preti sostenuti dal teologo don Luigi Sartori («i preti del lunedì») andava interrogandosi sui testi del Concilio e sulle ricadute pastorali.

Il primo incarico lo aveva visto cooperatore alla Sacra Famiglia in Padova (mentre si andava formando la zona residenziale) fino all’ottobre 1968, quando aveva iniziato il servizio di assistente presso il ginnasio del Seminario minore, prima di diventarlo anche del Liceo, l’anno successivo.

Nel 1971 diventò direttore del Centro di formazione professionale “Camerini Rossi” di Padova, gestito in precedenza dai Giuseppini del Murialdo. Nei corsi formativi cominciò ad inserire anche ragazzi disabili e nel 1976 presero avvio per loro dei corsi specifici, riconosciuti e finanziati dalla Regione Veneto. Assieme ai genitori di alcuni ragazzi, nella metà degli anni ’80 fu avviata l’attività di legatoria, che avrebbe poi portato alla nascita della prima cooperativa sociale di Padova, la cooperativa Camerini Rossi, di cui fu presidente a partire dal 1988: si trattava di un’iniziativa autonoma rispetto all’IRPEA che aveva dato in uso i locali a don Augusto. La cooperativa, che occupava persone con disabilità, ha anticipato e sostenuto lo spostamento dei servizi IRPEA nei confronti dei disabili, scelta particolarmente voluta da don Lucio Calore. Con lo sviluppo dei centri diurni di IRPEA e la necessità di ristrutturare la sede di via del Beato Pellegrino, la cooperativa nel 1997 si era trasferita al Centro Kofler di Padova, acquisendo la denominazione “Leg.Art”, riferimento per privati, uffici, professionisti e istituzioni.

Don Augusto non mancò nel frattempo di dedicarsi alla pastorale, prima presso la vicina parrocchia della Natività e, a partire dal 1988, presso la parrocchia della Conca, in Thiene, quale collaboratore festivo. Ebbe modo di impegnarsi anche nella Pastorale sociale della diocesi, fu consulente dell’Unione cattolica imprenditori e dirigenti e nel marzo 2002 fu voluto come delegato del vescovo circa il progetto Casa Madre Teresa di Calcutta per i malati di Alzheimer. Nel 2012 divenne collaboratore stabile alla Conca, nel territorio della quale risiedeva con i familiari. Negli anni 2019-2023 fu anche membro del Collegio dei consultori, in quanto espressione del Consiglio presbiterale. Come presbitero referente per la Caritas vicariale di Thiene, era stato promotore e fautore dell’emporio solidale “Olmo”, centro polifunzionale gestito da volontari di diverse associazioni, che offre servizi di negozio, orientamento al lavoro, accoglienza e ascolto per il territorio thienese.

«Sono stato dentro da sempre al mondo dello scarto. Non ho nostalgie e rimorsi, solo il rimpianto di amare di più e diversamente. Non potrei rinunciare al mio modo di vivere la fede, in ascolto delle esigenze di altri. Mi riscopro prete come avrei voluto: in modo sofferto, certo, amando la Chiesa, rimanendo al mio posto volentieri».

Testimone importante del nostro tempo, don Augusto ha saputo incarnare la vocazione alla carità nel contesto attuale. Nei suoi quasi cinquantanove anni di sacerdozio si è speso con disponibilità e riservatezza, mettendo al centro del proprio impegno di uomo e di prete i più deboli, le persone con disagio fisico o psichico. La profondità interiore gli ha permesso di leggere nell’animo delle persone, di coglierne le esigenze e di capirne le solitudini.

Don Augusto, pragmatico e incisivo, culturalmente preparato, si è sempre mosso con competenza, con una profonda conoscenza della Parola di Dio e una grande capacità di portarla nella vita quotidiana. Sostenuto da una fede fresca e solida, aveva una predicazione assolutamente memorabile: il suo insegnamento era volto a fuggire la banalità e a rivisitare la fede personale.

Le esequie saranno celebrate dal vescovo Claudio giovedì 21 marzo, alle ore 15.30, nella chiesa della Conca, in Thiene, dove vi sarà una veglia di preghiera la sera precedente, alle ore 20.30. La salma riposerà nel cimitero di Thiene.

*** *** ***

Nella festa di san Gregorio Barbarigo 2015 fu salutato il vescovo mons. Antonio Mattiazzo a conclusione del suo ministero episcopale. Per l’occasione, nel teatro del Seminario fu eseguito dalla Camerata Accademica del Conservatorio Cesare Pollini di Padova il Magnificat in re maggiore BWV 243 di J. S. Bach. A don Augusto, in rappresentanza degli ordinati di 50 anni prima, era stata chiesta una testimonianza sul versetto «Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles, esurientes implevit bonis et divites dimisit inanes». Eccone il testo.

L’ultima volta che abbiamo calcato questo palco è stato verso la fine del 1960 quando assieme ad alcuni amici presenti in sala, abbiamo presentato al grande pubblico del Seminario una breve commedia musicale. Nel cast, si fa per dire, c’erano anche don Pierantonio Gios, don Domenico Frison, don Fernando Zuliani che non ci sono più. Come don Antonio Pellegrini e don Giuseppe Brugnolaro che già sono andati avanti! Buon cinquantesimo anche a voi! Ascolteremo poi come Bach ha interpretato musicalmente queste parole del Magnificat. A me, ma credo anche a voi, risuonano ancora le fortissime note del Deposuit nel Magnificat del Perosi con quella pesante caduta di un’ottava dei bassi, in ritardo sulle altre voci. Quasi il pronunciamento di un verdetto, di una sentenza. Un metter fine con decisione a prevaricazioni e soprusi. Lo vorremmo. Eppure quotidianamente si è costretti a vivere faccia a faccia con la prepotenza, la spavalderia, lo sfruttamento, la furbizia più rivoltante, la corruzione, l’illegalità, le disuguaglianze più avvilenti, le ingiustizie più insopportabili. E la nostalgia di un giudice, che domini dall’alto questo guazzabuglio rimescolato continuamente dall’egoismo, si fa sempre più struggente.

Le abbiamo vissute e sofferte le utopie totalitarie del Novecento, con quanto di tragico e drammatico hanno prodotto: «Un’ipnosi collettiva, la follia delle masse di ricercare nell’ideologia un rifugio sicuro di fronte all’angoscia insopportabile della libertà», scrive Recalcati. Deposuit potentes!

Ma io ricordo anche quando, appena finita la guerra del ‛45, cantavamo: «Santo Padre che da Roma» e continuava: «Siamo arditi della fede siamo araldi della croce, al tuo cenno alla tua voce un esercito ha l’altar». Tempo di contrapposizioni, il rosso faceva paura e la Chiesa doveva riconquistare spazi, essere più visibile (o appariscente), farsi rispettare, riacquistare prestigio e influenza, stringendo magari ambigue alleanze. E chi non partecipava al coro era un detrattore, e chi poneva qualche riserva sull’opportunità di certi stili era accusato di scarsa fedeltà.

C’è sempre il rischio di un Deposuit quando coltiviamo l’illusione che rendendola potente e forte e rispettata, noi salveremo la Chiesa. È l’assurda autosufficienza del seme che non vuol morire per crescere, del Vangelo di Marco di domenica scorsa. Ma questo vale anche per me, per ciascuno di noi nel nostro modo d’essere, di presentarci agli altri, di relazionarci. Nelle parole e soprattutto nei comportamenti. Autoritari a volte, facendo pesare il ruolo che abbiamo, umiliando senza troppo pensarci chi ti fa un’osservazione o contrasta le tue decisioni.

Ma ci sono incontri a volte, che possono cambiare la tua vita più di un corso di esercizi ignaziani. Per me è successo quando ho incominciato ad inserire ragazzi con handicap nei corsi di Formazione Professionale al Camerini Rossi, proseguendo poi nell’avventura della prima Cooperativa sociale in Padova d’accordo col Vescovo Girolamo prima, poi col Vescovo Filippo e ancora col Vescovo Antonio che ha voluto inserire l’iniziativa nel Piano pastorale e sociale della Diocesi. Disabili e le loro famiglie: vivendoci assieme ha significato dover modificare giudizi e comportamenti e visioni e progetti, ha significato relativizzare principi e modalità d’azione che parevano irreformabili. Perché ti trovi davanti ad una sofferenza che sa di agonia per tutta una vita e che poco o tanto coinvolge anche la famiglia tutta.

E qualche volta ti vien voglia di pestare i pugni e gridare: «Basta, non è possibile! Fino a quando Signore?» A volte sembra la litania degli sfiduciati, dei delusi, dei disperati. Mentre invece il dolore innocente rimane sempre uno scandalo. Il miracolo è incontrare donne e uomini, madri e padri che non mollano; che ogni mattina e ogni sera devono scaricare il figlio a forza di braccia, che lo devono lavare e cambiare ogni volta che se la fa addosso anche sa ha 25 o 40 anni e altro ancora.

Miracolo è il coraggio di Paolino, spastico e sordomuto che lavora alla taglialibri che per mettere il braccio sul piano lavoro deve aiutarsi con l’altro braccio lasciandolo cadere. A sera il palmo della mano è rosso dalle botte, nonostante gli accorgimenti del caso. Ma non molla. Miracolo è lo sforzo di Massimo di vincere le paure e le ansie che lo squassano; è forse il più intelligente di tutti ma anche il più disturbato, che ti manda messaggi scritti su carta e in puro dialetto veneto, inseparabile dal suo telefonino che non funziona, ma gli basta estrarre l’antennina. È quello che ti chiede spiegazioni sul vangelo della domenica perché non ha capito niente (è la nostra catechesi del lunedì), quello che si ricorda quando Gesù ha cambiato il pane in pesce; quello che delle beatitudini ricorda «Beati quei che ga fame de giustizia perché i sarà giustiziai»; quello che al mercoledì delle ceneri s’è sentito dire «Ricordate che ti si polvere e polvere che te resti»; quello che ti racconta di Adamo ed Eva e della mela avvelenata. E ancora tante altre situazioni che hanno del miracoloso!

Prodotti imperfetti, eterni bambini, adulti per l’età che ormai hanno, che hanno acquisito una minima autonomia per sentirsi vivi, nonostante questa astenia e debolezza di fondo: non hanno le stimmate perché sono una stimmata vivente. E senza aver nemmeno la coscienza che questa debolezza può diventare luogo privilegiato di grazia. Sta a noi scoprirlo e farglielo capire. Exaltavit humiles: lo farà eccome! E quando ci riesci, uno sguardo diverso nei loro confronti, ti permette a volte sentimenti che sanno di adorazione.

Ennio Flaiano, anche lui una figlia con handicap, in un piccolo racconto, Cristo torna sulla terra, alla fine scrive: «Gesù continuò a fare miracoli. Un uomo gli condusse sua figlia malata e gli disse: Non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami. Gesù baciò quella ragazza e disse: In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare! Così detto sparì». Gli esurientes son quelli che aspettano che qualcuno gli voglia bene.

 

condividi su