È il giorno del silenzio, ma non dei vincitori. È il silenzio degli sconfitti, come sconfitto appare Gesù sulla croce. Sul volto dei perdenti scende un’ombra taciturna, una mescolanza confusa di rabbia e sconforto, di incredulità e stanchezza, di vuoto e profondo smarrimento. Ancora negli occhi le immagini della violenza indicibile, negli orecchi l’eco di urla assordanti. Il livello dei patimenti subiti a Gerusalemme non possono dissolversi con il tramonto di un giorno. Restano impressi nell’anima e nella memoria, si trascinano come un’eco soffocante per lunghi tempi ancora. Ci sono domande che continuano a tormentare il pensiero, a squarciare l’anima, a far sanguinare il cuore. Tutto questo dolore impotente, invisibile e silente, così familiare a chi vive un lutto, ha il diritto di essere ascoltato.
Vivere il Sabato santo potrebbe voler dire accettare di ascoltare il grido inerme di chi ha perso qualcosa o qualcuno di caro, di chi ha perso la speranza, il sorriso, il senso della vita, di chi ha perso semplicemente tutto.
Entrare nel Sabato santo è entrare nelle grandi domande esistenziali, perché la vita umana è stata ferita, è stata depotenziata al punto da trasformarsi in qualcosa di diverso.
Dobbiamo sentire il senso di ingiustizia per una vicenda che avrebbe dovuto finire “umanamente” in un altro modo, perché questo potrebbe voler dire che non ci pieghiamo alla rassegnazione, che vi è in noi ancora l’attesa di una risposta ulteriore, l’apertura a un mistero che ci supera.
Vivere il Sabato santo è inabissarsi tra gli sconfitti per ritrovare nel vuoto la Presenza del Crocifisso, reso «in tutto simile» a noi (cf. Eb 2,17).
Il Crocifisso è la Parola ridotta al silenzio, ma per un tempo breve.
Così ci meraviglieremo di lui;
davanti a lui resteremo sbigottiti e ammutoliti,
poiché vedremo un fatto che mai ci era stato raccontato
e comprenderemo ciò che mai avevamo udito (cf. Is 52,15).
Roberta