MARCIA PER LA PACE
Omelia del vescovo Claudio
Agna, 14 gennaio 2018
Il Signore risorto
promulga per i secoli
l’editto della pace;
pace tra Cielo e Terra,
pace tra tutti i popoli,
pace nei nostri cuori!
La pace è possibile: l’ha voluta e stabilita Dio stesso; la pace è necessaria per coloro che si riconoscono credenti in lui e nel Vangelo di Gesù: è il frutto di un Editto di Dio!
Camminando insieme, oggi, pubblicamente, marciando sulle nostre strade, convocando chiunque si voglia far nostro amico e fratello in nome della pace, abbiamo voluto dire chiaramente che la nostra chiesa diocesana di Padova lavora per la pace, sceglie le vie della pace, si rende disponibile per tutte le azioni di pace. E non può essere diversamente!
Abbiamo invece il dovere di renderci sempre più degni di questa chiamata. Nessuno vuole o può cambiare il Vangelo, ma tutti dobbiamo far il possibile per cercare gesti e linguaggi che oggi rendono vero e comprensibile il bel Vangelo di sempre.
Che cosa significa osservare l’editto della Pace vivendo accanto ai nostri fratelli immigrati (circa 100.000 nel territorio della nostra diocesi; il 10% della popolazione)? E che cosa significa obbedire all’editto della Pace posando lo sguardo sui nostri fratelli e sorelle che stanno fuggendo da situazioni insostenibili e indegne della vita di un uomo e di una donna?
Il Santo Padre, che ieri ho visto personalmente, in partenza per un altro difficile viaggio pastorale, ha indicato quattro pietre miliari per l’azione di un operatore di pace e quindi per un cristiano:
Dice:
Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.[12]
“Accogliere” richiama l’esigenza di ampliare le possibilità di ingresso legale, di non respingere profughi e migranti verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze, e di bilanciare la preoccupazione per la sicurezza nazionale con la tutela dei diritti umani fondamentali. La Scrittura ci ricorda: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo».[13]
Anche da noi è necessario rivedere i toni e i linguaggi con i quali ci stiamo educando ad accogliere. Non è possibile favorire il diffondersi di una mentalità razzista, chiusa, spesso fomentata a partire da informazioni distorte. Soffiare sulle paure per collocare e venderci sicurezze; oppure continuare a contrapporre le azioni di solidarietà per gli italiani o per gli altri: si sa benissimo che chiunque sia nel bisogno ha diritto di essere aiutato e che si cerca di aiutare tutti, sia italiani che non italiani.
“Proteggere” ricorda il dovere di riconoscere e tutelare l’inviolabile dignità di coloro che fuggono da un pericolo reale in cerca di asilo e sicurezza, di impedire il loro sfruttamento. Penso in particolare alle donne e ai bambini che si trovano in situazioni in cui sono più esposti ai rischi e agli abusi che arrivano fino a renderli schiavi. Dio non discrimina: «Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova».[14]
Possiamo chiederci se territori come quelli di Padova e di Venezia stanno facendo il possibile per proteggere chi sta cercando la sua strada e desidera vivere con la sua famiglia nella pace. Siamo province ricche per le nostre capacità in campo economico e dovremmo distinguerci nella capacità di proteggere chi attraversa i nostri sentieri. Si parla spesso di eccellenze! Perché non tentare un percorso esemplare per il Veneto, per l’Italia, per l’Europa di un mondo che vive nella Giustizia e nella Pace, nella diversità e nel rispetto reciproco?
Abbiamo dei profeti da accogliere nella nostra storia e nella nostra capacità di progettare città e società, nella nostra politica e nella nostra convivenza.
Penso in particolare al prof. Papisca o a mons. Nervo o a mons. Mazzuccato.
“Promuovere” rimanda al sostegno allo sviluppo umano integrale di migranti e rifugiati. Tra i molti strumenti che possono aiutare in questo compito, desidero sottolineare l’importanza di assicurare ai bambini e ai giovani l’accesso a tutti i livelli di istruzione: in questo modo essi non solo potranno coltivare e mettere a frutto le proprie capacità, ma saranno anche maggiormente in grado di andare incontro agli altri, coltivando uno spirito di dialogo anziché di chiusura o di scontro. La Bibbia insegna che Dio «ama lo straniero e gli dà pane e vestito»; perciò esorta: «Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto».[15]
In questo campo abbiamo un bell’esempio nel mondo universitario; favorire la cultura è una delle strade per sconfiggere la povertà; lo sguardo rivolto ai giovani è sempre invito a far spazio ad apporti nuovi, è sguardo educativo nel senso che sa trarre da loro il meglio che il Signore ha posto in loro e che tramite loro offre a tutti noi, a tutta la società.
“Integrare”, infine, significa permettere a rifugiati e migranti di partecipare pienamente alla vita della società che li accoglie, in una dinamica di arricchimento reciproco e di feconda collaborazione nella promozione dello sviluppo umano integrale delle comunità locali. Come scrive San Paolo: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio».[16].
Sono grato a nome di tutta la nostra Diocesi per le fatiche che il territorio di questa zona ha dovuto portare nel vedere concentrate qui tante persone in attesa di veder riconosciuto il diritto di essere accolti. Concentrazione inopportuna, che crea disagio, che carica su pochi impegni e pesi che sarebbero sopportabili solo se condivisi tra tanti. Concentrazione che è andata oltre le capacità. Grazie per la pazienza, capisco anche alcune reazioni scomposte e provocate: Il Signore vi benedica per la fatica fatta. Spero che d’ora in poi si instauri un processo virtuoso che alleggerisca le vostre fatiche e quelle dei richiedenti asilo.
Però non accettate di scendere in guerra contro i poveri: poveri contro poveri per manovre di chi usa gli uni e gli altri.
Dagli immigrati, infatti, viene anche un contributo. Soprattutto dai profughi (come ho potuto dire per la festa dell’Epifania) il contributo è innanzitutto di tipo spirituale: ci viene testimoniata volontà di vita, ricerca di benessere, capacità di mettersi in cammino, di sognare, di avere ideali.
In una società come la nostra, contrassegnata da un evidente innalzamento dell’età anagrafica e contemporaneamente da un certo autocompiacimento, portatore spesso di tristezza e di grigiore, la presenza di uomini e donne mossi da idealità, da amore per la propria famiglia, per la giustizia, la libertà non può che essere accolto come un arricchimento spirituale.
Un giorno ce ne accorgeremo, così come quanti dei nostri parenti sono emigrati nel passato o si sono rifugiati in altre terre: oggi sono diventati amici e sostenitori dei paesi dove sono andati a vivere. Questa è stata la storia della stessa famiglia piemontese del nostro santo Padre Francesco.
Si tratta certamente di azioni impegnative.
Non sono soltanto sentimenti o parole o considerazioni da relegare nei momenti di vita religiosa e spirituale: chiedono invece una nostra presa di posizione storica, concreta. Come sempre la vita di preghiera chiede di essere tradotta in una storia.
La nostra storia, quella di ciascuno di noi, quella di cui noi siamo responsabili.
È questa la vitalità del Vangelo: sa sprigionare la sua forza e sa chiamare alla vita le comunità dei Cristiani.
Anche questa nostra presenza questa sera è espressione della Forza del vangelo.
Infatti noi tutti siamo qui perché siamo figli della pace, la nostra fede nasce dall’ascolto della Parola che ci parla di Dio come Padre, la nostra testimonianza nasce dall’esperienza di fraternità che viviamo durante questa liturgia (dove siamo chiamati e trattati come fratelli e sorelle), la nostra vocazione a costruire Pace nasce dalla Pasqua di Gesù che ci dona una pace nuova e vera più radicale e bella di quella che sa raggiungere il mondo.
L’Eucaristia è il luogo generatore della Pace. Per noi cristiani essa cambia il cuore. E vediamo che Gesù Cristo, il vivente, è così potente da cambiare il nostro cuore. Per questo l’Eucaristia è un laboratorio di pace nel quale impariamo a guardare agli altri come a nostri fratelli e sorelle. Qui impariamo a guardare agli immigrati e li vediamo come fratelli e sorelle, guardiamo ai profughi con il cuore e lo sguardo di Gesù. Diamo loro la mano e il segno della pace che è dono di Dio perché riconosciamo di essere tutti i suoi figli e tra di noi quindi fratelli.
Infine, Il Dio della pace chiede anche che sappiamo diventare noi stessi costruttori di pace.
Ce lo chiede con forza, con energia, con passione: ce lo chiede da padre che ama tutti i suoi figli e non può sopportare che tra di loro siano divisi. Non è un suggerimento o un pio desiderio. È molto di più: è un criterio di appartenenza alla Chiesa!
L’editto della pace stabilisce l’esistenza di un mondo nuovo nel quale non ci sono più armi ma aratri, dove non ci si esercita più nell’arte della guerra ma si diventa inventori di strade di pace.
Noi qui oggi siamo un’immagine di quello che il Signore vuole che diventi la nostra società. La pace è obbligo per un cristiano.
L’ultimo rito della celebrazione della messa è costituito da un mandato, da una missione affidata ai cristiani: andate in Pace. È il mandato a costruire la pace.
Ricordo la bella preghiera di San Francesco
O Signore, fa’ di me uno strumento della tua Pace:
Dove è odio, fa’ ch’io porti l’Amore.
Dove è offesa, ch’io porti il Perdono.
Dove è discordia, ch’io porti l’Unione.
E ricordo quelle storie di vocazione: Samuele, Samuele!! Quella di Andrea e di Simone!
Che non ci sia una chiamata anche per noi?
+ Claudio, vescovo