Una caratteristica peculiare di ciò che chiamiamo “evento” è quella di portare con sé una discontinuità. In questi giorni stiamo facendo esperienza di un evento, inatteso e traumatico, che non riusciamo a ricondurre a qualcosa di familiare. Qualcosa di nuovo ci è dato in consegna che rompe abitudini, schemi, consuetudini e ci costringe a cambiare la nostra comunicazione e lo stile di preghiera all’interno della comunità.
Ci sono, però, almeno due modi che, senza rendercene conto, utilizziamo per neutralizzare la potenza dell’evento (e del cambiamento che porta con sé): parlare dell’evento e affrettarci a mettere in ordine il disordine. Sono due atteggiamenti istintivi che tradiscono l’ansia di perdere parte del controllo che abbiamo faticosamente guadagnato. Hanno in comune la mancanza di ascolto profondo.
Aggiorniamo il momento di un coinvolgimento radicale, posticipiamo una decisione, ci rendiamo insensibili alla vertigine che proviamo di fronte a quella pagina bianca che ci viene incontro, non avendo cura delle parole, moltiplicandole in modo compulsivo per non sentire.
Per non ascoltare c’è un piccolo segreto che conosciamo bene: parlare. Finché parliamo noi, l’altro tace. Parlare dell’evento è un modo per addomesticarlo, fargli dire ciò che ci fa meno paura, usarlo come uno specchio, oppure trasformarlo in un fatto che può essere compreso grazie alle parole che come una rete lo imbrigliano e lo mettono a tacere. Coprirlo di parole e interpretazioni prima ancora che ci incontri e ci parli, è un modo efficace per azzerare il carico di novità che porta con sé. «Terrò i pensieri accanto a me e li avvolgerò nel calore bianco di una pagina, perché la bocca non li divori e l’aria non li disperda troppo in fretta» si propone Lea Melandri nel suo Alfabeto d’origine. Per noi il proposito di una preghiera discreta.
Un secondo modo per ridurre la potenza dell’evento, che solitamente ci provoca un arresto, è quello di accelerare per riportare al più presto la situazione allo stato originario o almeno riparare il danno. La scuola sta correndo questo rischio. Senza rendercene conto, per il timore di perdere qualcosa di essenziale (familiare?), ri-produciamo dinamiche conosciute con strumenti nuovi, anziché produrre nuove dinamiche a partire dai vincoli che l’evento ci impone. Sono lodevoli i tentativi di molti operatori pastorali, di tenere vivi i legami interpersonali all’interno della comunità e garantire, ad esempio, la partecipazione “a distanza” della santa messa. Non perdiamo, però, l’occasione, di comprendere che ciò che può venire perduto non può essere essenziale o non potrebbe venire perduto. Ricordo, a questo proposito, un’intensa meditazione di suor Rosanna Gerbino a partire dal versetto del Vangelo di Luca «Appena la voce cessò, restò Gesù solo» Lc 9,36 tratto dal racconto della Trasfigurazione e le sue parole conclusive: «restò Gesù solo perché ciò che resta è ciò che vale e la vita vale perché nella vita ci sono le cose che restano».
Michele Visentin, docente ISSR di Padova
20 marzo 2020