Se il Dio a cui ci riferiamo è il Padre di Gesù Cristo che manda il suo Spirito perché ci sia vita, allora non possiamo negare che egli abbia a che fare anche con la storia di un popolo sconvolto da una malattia che, oltre a far soffrire e morire tante persone, mette alla prova la resistenza delle strutture sanitarie e delle istituzioni pubbliche.
Il Dio di cui parla la Bibbia, colui nel quale noi cristiani diciamo di credere, è il Padre che si prende cura di ogni creatura, del passero e del giglio del campo. Negarlo significherebbe prendere le distanze da tutto ciò che Gesù ha detto e ha fatto.
Siamo tribolati e angosciati: non saremo mai separati dall’amore di Cristo. L’amore dal quale nemmeno il coronavirus può separarci è il modo di stare con noi stessi, con gli altri, con la natura e con Dio che Gesù, il Cristo, ha vissuto nella sua carne, consegnandocelo perché diventi il nostro modo di stare al mondo.
La questione si ripresenta oggi come in passato. Pensiamo al terremoto che a Lisbona, il 1° novembre 1755, causò la morte di un numero di persone fra 60mila e 90mila. O a ciò che è accaduto in Europa fra il 1933 e il 1945. Due storie diverse, in seguito alle quali molti si sono interrogati sulla sensatezza della fede in Dio.
C’è stato chi si è messo dalla parte della divinità sforzandosi di sostenere le sue ragioni e le ragioni di chi continua a credere che esista un ordine provvidenziale. C’è chi ha assunto il ruolo del pubblico ministero, mettendo sotto accusa l’idea stessa di un dio creatore.
Da cristiani, preferiamo attenerci alle parole che ci vengono consegnate dalla Bibbia, in particolare dai Salmi: anche nella sventura di questi giorni c’è posto per l’invocazione, la rabbia, la paura, l’imprecazione, la domanda di aiuto, la consegna fiduciosa nelle mani più forti di un Padre che, come una madre, nella vita e nella morte, ha cura di tutti i suoi figli.
don Riccardo Battocchio, teologo e rettore dell’Almo Collegio Capranica
19 marzo 2020