In questi giorni tutta la Chiesa ha “obbedito” ai Decreti che via via il Governo emanava. All’inizio con un tentativo di “resistenza”, dato che subito ci è stato impedito un bene che sta in cima alla gerarchia delle cose importanti per i cristiani: l’Eucaristia. Altre cose venivano ancora concesse, e questo ci pareva impossibile perché sovvertiva la nostra scala di valori: la messa no, e le riunioni, lo sport, il bar del patronato sì? E così abbiamo dubitato che fosse giusto obbedire alle leggi dello Stato, che sembravano minare la nostra libertà religiosa (anche perché lo Stato, inizialmente, ha scelto contraddittoriamente di non toccare alcuni mondi che, dando prova di scarso senso del bene comune, avevano alzato la voce più di noi).
Poi un po’ alla volta ci siamo resi conto che non c’erano alternative: i numeri dei contagi e dei decessi, il rischio di collasso delle strutture sanitarie, il venir meno delle “resistenze” di tutti gli altri mondi (perfino il calcio alla fine ha ceduto!) ci hanno fatto capire che quell’iniziale obbedienza sofferta e anche criticata da tante parti, in realtà era giusta e doverosa.
Proviamo a dirci almeno due ragioni di questa doverosa obbedienza.
La prima: i cristiani hanno sempre riconosciuto il ruolo indispensabile dell’Autorità politica come garante del bene comune e di quei beni – riconosciuti dalla Costituzione – che nessuno può raggiungere e preservare da solo. Oggi il bene costituzionale in gioco è la salute della popolazione, messa in pericolo da un’epidemia che per essere fronteggiata chiede di poter agire sulla base delle conoscenze scientifiche, e mobilitando tutta la popolazione senza eccezioni. Solo l’autorità politica, con la sua prerogativa tipica di poter agire verso tutti e con l’apporto delle competenze scientifiche specifiche, è in grado di fronteggiare un simile pericolo, attraverso le norme e le risorse pubbliche. E dunque lo Stato non ci ha chiesto di rinunciare all’Eucaristia per una (s)valutazione su di essa, ma semplicemente per una ragione sanitaria, indicata dalla scienza e legata al fatto del radunarsi delle persone. La Chiesa, in questo caso, riconoscendo alla scienza e alla politica l’autorevolezza nel loro campo, non toglie nulla a se stessa, perché non ha compiti e competenze su tutto. Questo ce l’ha insegnato in modo chiaro il Concilio Vaticano II.
La seconda ragione: in gioco oggi è la vita delle persone, e la vita è un bene indisponibile (in altri tempi si sarebbe detto “non negoziabile”). La Chiesa, di fronte a esso, non può avere dubbi, tanto più che in questa epidemia a rischio ci sono soprattutto i più fragili. Noi non rinunciamo all’Eucaristia comunitaria perché non è importante, ma per amore della vita. E non ha senso immaginare gerarchie o contrapposizioni tra questi beni: rispetto alla vita, infatti, ora c’è un’urgenza temporale. Il bene della fede, che pur si nutre dell’Eucaristia, non è compromesso, perché va anche oltre il tempo dell’urgenza. Dio non viene soppiantato quando si difende la vita.
don Marco Cagol, vicario episcopale per le relazioni con il territorio e le istituzioni
16 marzo 2020